Ritengo irrilevante parlare della “fotografia come arte”: l’unica indagine che mi sembra metodologicamente corretta è quella che tende a vedere la fotografia come mezzo tecnico nelle sue utilizzazioni in campo artistico. Il problema si presenta estremamente vasto, la zona di confine tra fotografo e artista spesso ambigua e la bibliografia presa in considerazione, sebbene ricca di apporti settoriali, è tuttavia insufficiente in sede generale, soprattutto per quanto concerne le ultime tendenze. Non intendendo fare una “storia”, ho tuttavia tentato di ripercorrere quel cammino che permette attualmente di assistere all’ascesa della fotografia come “medium” specificamente artistico. In particolare, ho cercato di concentrarmi sui concetti di: 1. riproducibilità, caratteristica fondamentale del mezzo che in sede artistica viene negata per esigenze di mercato. 2. produttività, che riguarda i “modi” di applicazione del mezzo quand’esso sia strutturalmente fondamentale ai fini della composizione dell’opera. Ho inoltre utilizzato i termini di “medium-equivalente” e “medium sostitutivo” per indicare il rapporto con i mezzi tradizionali. I limiti dei discorso risiedono soprattutto nello scarso spazio dedicato a ogni singolo autore, nel limitatissimo numero di artisti citati e nell’esigenza di accostare, nella consimiliarità dell’utilizzazione del mezzo, artisti molto diversi tra loro. La fotografia nell’epoca delle grandi Esposizioni Universali. Gli antecedenti (la lunga storia della camera obscura) e le sue prime applicazioni nel campo della ritrattistica, mostrano come la fotografia nasca dallo sforzo di semplificare e allargare la possibilità di produrre immagini onde rispondere alle richieste di un sempre più vasto ceto borghese. Con estrema velocità, infatti, essa si sostituisce, dopo averla messa in crisi, alla la ritrattistica minore dei miniaturisti, che diventano essi stessi i primi dagherrotipisti, mostrando in questa continuità il suo carattere di innovazione tecnologica. Innovazione ben lontana da intenti di “artisticità”. Malgrado la qualità di un Nadar o di un Carjat e in generale di tutta la prima generazione di fotografi, dovuta proprio alle tradizioni artigianali che essi hanno alle spalle, alla nuova macchina vengono richieste essenzialmente immagini a costi accessibili e di facile realizzazione: Adoiphe Disdéri, inventore delle “cartes-de-visite”, era considerato il fotografo più ricco d’Europa; nella sola Inghilterra, negli anni immediatamente successivi al 1860, vengono vendute da 300 a 400 milioni di “cartes” all’anno; Piatt D. Sabbitt, dal 1853, si dedica professionalmente alla fotografia per turisti sulla riva americana delle cascate del Niagara. Il fotografo dell’800 sembra stare all’artista come l’ingegnere all’architetto: i primi tesi in uno sforzo di innovazione basato su esigenze di produttività (si pensi al continuo succedersi di tecniche atte a superare i lunghi tempi di posa e a realizzare la stampa su carta), i secondi relegati a un ruolo socialmente sempre più secondario. Di questa situazione le fotografie del Crystal Palace realizzate da Philip Henry Delamotte sono emblematiche: esse sintetizzano in una sola immagine Esposizioni Universali, ingegnere (che è il loro coreografo) e fotografo. Non è dunque casuale la significativa coincidenza tra la prima apparizione pubblica, di un certo respiro, della fotografia e l’Esposizione Universale di Parigi del 1855 che le dedicò una sezione autonoma. La grande borghesia industriale della seconda metà dell’800, inaugura con le Esposizioni Universali quei “luoghi di pellegrinaggio al feticcio merce” che “(...) trasfigurano il valore di scambio delle merci; creano un ambito in cui il valore d’uso passa in secondo piano; inaugurano una fantasmagoria in cui l’uomo entra per lasciarsi distrarre” (W. Benjamin). È qui che s’inserisce la fotografia ed è qui che “fugge” la pittura. L’una perfettamente inserita in questa nuova realtà, l’altra all’inseguimento della propria “aura”. Ne può essere un esempio significativo la posizione di Baudelaire (il cui odio per la fotografia deve essere interpretato come odio per la massa): “La photographie peut s’approrier impúnément les choses insidieuses qui ont dróit à une place dans les archives de notre mémoire si, à ce propos, elle fait halte devínt le domaine de l’insaisissable, de l’imaginaire: devant le domaine de l’art où elle ne peut que mener une vie errante, et auquel l’homme livre son áme” e, in occasione del Salon del 1859, Baudelaire definisce la fotografia come “le refuge de tous les peintres ratés”.A cavallo tra i due secoli fotografia e arte continuano a muoversi su canali completamente differenti. È tuttavia interessante notare come è il filone dello sperimentalismo tecnico quello che permetterà L'inserimento della fotografia all’interno delle avanguardie storiche. Significative in tal senso sono le sequenze animate di Muybridge o quelle di Marey o quelle di Thomas Eakins che possono essere certamente inserite in una ricerca di tipo “ingegneristico” (con riferimento all’esponente emblematico del nuovo sperimentalismo tecnologico ottocentesco). Mentre l’altro filone, quello meramente imitativo (fino alle esasperazioni di cui tratta nel suo articolo Michael Hiley), non solo non ebbe alcun seguito di rilievo, per quanto riguarda il taglio di questo discorso, ma può essere definito come un fenomeno di “degenerazione” (nel senso dell’antistoricità). L’articolo di Hiley (sebbene limitato alla sola Inghilterra e a fenomeni “marginali”) fornisce, tuttavia, interessanti dati sul periodo a cavallo della fine dell’800, quando fu possibile vedere pubblicamente opere di fotografi di diverse tendenze, a testimonianza di un dibattito e di un confronto, sia tecnico che teorico, già notevolmente sviluppato (è dello stesso periodo la nascita e la diffusione di riviste fotografiche specializzate). Prima delle avanguardie storiche, il problema principale che sembra porsi nel rapporto fotografia-arte riguarda soprattutto certa fotografia che imita direttamente la pittura. Il rapporto che invece l’artista ha con la fotografia è un rapporto fondamentalmente strumentale sia nel senso che la fotografia serva direttamente da modello (Delacroix, Degas), sia che essa rappresenti un momento indiretto dell’ispirazione o il pretesto della ricerca. Prima dell’avvento della fotografia, l’opera era realizzata e pensata unicamente in funzione della tela e viveva di un suo spazio non reale (rispetto all’osservazione scientifica), ma reale rispetto alla tela che costituiva l’unico universo spaziale di traducibilità dell’osservazione. La fotografia collabora a rompere l’equilibrio della tela mostrando immagini della realtà fissate nella frammentaria osservazione della macchina. Ciò che la fotografia ha definitivamente dato all’artista è il taglio fotografico che, non solo sostituisce la dimensione tela, ma determina le diverse possibilità di frammentazione dell’immagine e la messa a fuoco dei particolari colti nella loro staticità o nei loro tentativi di traduzione del movimento. Ed è proprio nell’ambito dei tentativi di traduzione del movimento, ovvero quell’ambito che (anche se con diversi scopi) si ricollega direttamente al filone dello sperimentalismo tecnico, che si ha un primo tentativo, il “fotodinamismo” di Anton Giulio Bragaglia, di inserimento della fotografia all’interno delle avanguardie. È ormai noto il rapporto esistente tra le “fotodinamiche” di Bragaglia e alcune opere di Balla in cui un identico fine formale viene realizzato con mezzi differenti. Ma a Bragaglia l’amicizia e la stretta “collaborazione” con Balla non bastavano e rivendicava autonomia, all’interno del Futurismo, per la propria espressione. Incomprensione e dichiarata ostilità (soprattutto da parte di Boccioni) furono la risposta a tale richiesta: il Futurismo non seppe “comprendere” (far proprio) ciò che andava al di là dei mezzi tradizionali, in tal modo costringendo all’isolamento un’esperienza che, forse, avrebbe potuto avere maggiori sviluppi.

Walter Benjamin e Bertold Brecht e l’uso politico della fotografia.
Prima di iniziare a parlare di quelle avanguardie che entrano in merito al problema dell’inserimento e dell’utilizzazione della fotografia a fini specificatamente artistici, mi sembra necessario aprire una breve parentesi circa il dibattito teorico sull’uso della fotografia. Al riguardo spetta sicuramente a Benjamin una posizione di particolare interesse e rilievo, ancor oggi, alla base del dibattito sull’argomento. L’interpretazione dell’opera di Atget, che “libera il campo per l’occhio politicamente educato” (Benjamin), e di quella di Sander (con riferimento ad “Antiitz der Zeit”, “La faccia del tempo”), “le cui opere potrebbero assumere un’imprevista attualità politica” (Benjamin), è particolarmente significativa della posizione di Benjamin nei confronti della fotografia: utilizzata in un certo modo, può costituire un momento, non trascurabile, della presa di coscienza politica. Al contrario, Brecht sembra non credere nelle possibilità “politiche” della fotografia: “Una semplice riproduzione della realtà concreta attualmente è meno che mai suscettibile di dire qualcosa di concreto sulla realtà. Da una fotografia delle officine Krupp o dell’Aeg non si ricava assolutamente nulla sul conto di queste istituzioni”. E contrapponendo alla fotografia la vera realtà concreta, che “è andata scivolando verso l’elemento funzionale”, afferma che la possibilità di una presa di coscienza politica non può risiedere nell’immagine di una fabbrica, ma solo nella fabbrica stessa, nella sua realtà produttiva, nella sua realtà interna, nella condizione e nella lotta della classe operaia. Ma l’apparente inconciliabilità di queste due tesi è forse dovuta ai diversi e concreti riferimenti cui si rifanno. La tesi sostenuta da Benjamin, più che dall’opera di Atget, sembra essere influenzata da “Antiitz der Zeit” di Sander che costituisce un caso isolato di ricerca socio-antropologica di notevole efficacia. Il I° libro (pubblicato in 45 cartelle comprendenti 12 fotografie ciascuna), si articolava in 7 gruppi corrispondenti al contemporaneo ordinamento sociale. Partendo dal contadino, Sander conduceva un’analisi, basata sull’osservazione immediata, di tutti i ceti sociali e le professioni: dai rappresentanti della cultura all’idiota. Mentre la tesi brechtiana, sull’impossibilità di un uso politico, sembra essere in diretta polemica con le fotografie “industriali” realizzate dai fotografi che, nella Germania di allora (e siamo tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta) gravitavano attorno alla “Neue Sachlichkeit” (“Nuova Soggettività”). L’opera di Atget sembra invece preannunciare (è interessante il fatto che Atget sia stato “scoperto” da Man Ray) quella liberazione dell’oggetto e quella sconcertante vuotezza dell’immagine che, in seguito, confluirà nella rappresentazione surrealista della realtà. Più che una diretta lettura politica, Atget sembra offrire il pretesto di un’analisi sulla progressiva riduzione della componente eclettica e soprattutto sulla riduzione della possibilità interpretativa della realtà. G. Pasqualotto dice: “Se la vecchia New Haven colta dall’obiettivo di Hili ha ancora attorno a sé un alone di lontananza che rimanda al suo passato e al suo futuro, alle cose e ai fatti che l’hanno circondata prima e dopo l’attimo in cui è stata ripresa, le carrette allineate di Atget rimandano invece a una serie di rapporti molto minore, richiamano attorno a sé una rete di esperienze, una vita molto più ristretta. E infine nel movimento progressivo di riduzione del campo di relazioni, il barattolo di conserva reclamizzato dalla pubblicità perde completamente la possibilità di venire interpretato... viene immesso nella vita”. Le due opposte tesi sull’uso politico della fotografia (Benjamin e Brecht) alla luce dell’attuale riduzione dell’interpretabile. portano a concludere che lo scivolamento della realtà concreta verso l’elemento funzionale costituisce, forse, una delle più importanti e serie chiavi di lettura per comprendere uno dei gangli fondamentali dei “rapporto” arte-società: una frattura politica senza possibilità di conciliazione reale, un’esercitazione per giustificare se stessi da cui si può uscire soltanto abbandonando ogni velleità “artistica” e assumendo un ruolo politico diretto o tentando di mediare l’affermazione di Brecht con la “utopia” di Benjamin.

La fotografia all’interno delle avanguardie come mezzo equivalente.
Il discorso sull’inserimento della fotografia all’interno delle avanguardie, come mezzo equivalente ed in seguito sostitutivo di quelli tradizionali, sembra trovare nel cosiddetto “fotomontaggio” dada uno specifico tentativo d’applicazione. Molto si è discusso sulla sua importanza e sul suo significato nell’opera dei diversi artisti: Voiker Kahmen e Demetrio Enrique pongono l’accento su Heartfield, Heimut ed Alison Gernsheim su Christian Schad, Jean-Francois Bory su Raoul Hausmann, Jasé Pierre su Hannah Hóch e così via. Ma ciò che interessa notare, dal punto di vista dell’utilizzazione del mezzo, è che il cosiddetto “fotomontaggio” dada può essere un facile abbaglio. La fotografia viene utilizzata in senso sostanzialmente “pittorico” sia per quanto concerne il lato compositivo dell’opera sia per il suo lato tecnico: trattasi in realtà (come fa notare William S. Rubin) di foto-collage. Le osservazioni fatte sul “fotomontaggio”, in cui la fotografia viene utilizzata quale mezzo equivalente, sono valide anche per l’opera “fotografica” di Man Ray, anche se fu probabilmente tra i primi a usare la fotografia in quanto tecnicamente tale a fini specificamente artistici, ma non il solo, né privo di sollecitazioni esterne visto che le iniziative newyorchesi di Alfred Stieglitz preesistevano alla sua attività “rayografica”. Se infatti si confrontano parallelamente gli “Aerographs” (realizzati con lo spruzzatore) e i “Rayographs” (realizzati per esposizione diretta di carta fotografica sensibilizzata), si può facilmente notare che il fine formale è praticamente identico e che cambia solo la tecnica utilizzata per la realizzazione. Ed è lo stesso Man Ray, in un’intervista con Irmeline Lebeer, a chiarire ancor meglio ciò che abbia rappresentato per lui l’utilizzazione della fotografia: “Tutte le mie attività si pongono sullo stesso piano (...) La fotografia, gli oggetti, la pittura, la scrittura (...) Dipingo ciò che non posso fotografare (...) E fotografo le cose che non posso dipingere”. Le osservazioni sul “fotomontaggio” e sull’opera “fotografica” di Man Ray permettono alcune considerazioni sul più generale rapporto avanguardia artistica-fotografia: l’identificazione del mezzo con l’espressione (caratteristica delle attuali “avanguardie”) non è ancora avvenuta e la fotografia non è che un puro mezzo che, come quelli più tradizionali, deve essere elaborato (anche e soprattutto nella sperimentazione tecnica) fino a perdere i suoi attributi specifici, fino a diventare pittura o collage essa stessa. Fino a Dada compreso e oltre, il medium artistico è costituito dall’opera e la fotografia (là dove viene utilizzata) svolge il ruolo subalterno di mezzo equivalente a quelli tradizionali. L’estremizzazione di tale ruolo risulta con particolare evidenza nell’utilizzazione della fotografia fatta dal Surrealismo: basti citare la “peinture-photo” di Max Ernst “A Gaia”. Contemporaneamente, sul fronte propriamente fotografico, il rapporto fotografia-arte trova in Albert Renger-Patzsch, pioniere della Nuova Oggettività, un autorevole interprete: “Lasciamo l’arte agli artisti e, mediante la fotografia cerchiamo di creare immagini che abbiano un valore di per sé, in virtù della loro intrinseca qualità, senza andare a prendere prestiti dall’arte” (H. e A. Gernsheim).

Utopia rivoluzionaria e integrazione tecnologica.
Il Bauhaus che, “come camera di decantazione delle avanguardie”, ha il compito storico “di selezionare tutti gli apporti delle avanguardie stesse, mettendoli alla prova di fronte alle esigenze della realtà produttiva” (M. Tafuri), rappresentò anche per la fotografia la verifica delle precedenti ipotesi sia in sede di utilizzazione artistica, sia come medium a fini direttamente legati alla produzione industriale. La fotografia fu introdotta nei programmi d’insegnamento dei Bauhaus solo nel 1929 (con la designazione di Peterhaus) pur avendo avuto una parte importante all’istituto già nei quattro o cinque anni precedenti. L’impulso principale venne da Laszio Moholy-Nagy, che già all’epoca in cui fu chiamato al Bauhaus (1923) si occupava di tecniche fotografiche che esercitarono una notevole influenza, soprattutto sulla grafica pubblicitaria. Anche se i dati sul rapporto fotografia-Bauhaus sono estremamente scarsi, è tuttavia possibile fare due osservazioni preliminari: 1. Nonostante la partecipazione di Moholy-Nagy al Bauhaus, la sua ricerca sulle possibilità della fotografia necessita di essere valutata autonomamente perchè fondamentalmente legata al dibattito interno alle avanguardie artistiche; 2. il grande apporto dato dal Bauhaus al ruolo e all’inserimento della fotografia nell’ambito della produzione industriale è principalmente legato alla nascita della moderna tecnica pubblicitaria. Premesso che la fotografia occupa un posto centrale nell’estetica di Moholy-Nagy, Caroline Fawkes, in apertura del suo articolo, afferma che “scopo della ricerca è di stabilire ciò che la fotografia rappresentò per l’artista ungherese e come essa venga a porsi in rapporto con le altre sue attività (non fotografiche), in particolar modo nei primi dieci anni della sua carriera” (C. Fawkes, 1975). Quando, nel 1920, Moholy-Nagy arriva a Berlino si è nel periodo in cui qui trovano ospitalità (per ragioni fondamentalmente politiche) artisti di tutta Europa e in particolar modo i Costruttivisti russi la cui dichiarazione programmatica può essere sintetizzata con: l’ingegnere è il prototipo dell’artista. In apertura di articolo, avevo già accennato alla tendenza “ingegneristica” rilevabile a partire dalla seconda metà dell’800. Successivamente tale tendenza oltre a determinare la quasi completa emarginazione di alcune figure professionali, aveva collaborato in prima persona a condannare all’isolamento le attività artistiche. Sia il Costruttivismo che il Bauhaus (in modi completamente differenti), tentarono di capovolgere la situazione riscattando a un ruolo “positivo” le attività “artistiche” ed è in tal senso che va interpretata la dichiarazione programmatica dei Costruttivisti (indubbiamente assai astratta e meccanicistica). Infatti tra i russi che si trovavano a Berlino, in piena Repubblica di Weimar e non nell’Urss post-rivoluzionaria, non tutti erano d’accordo nell’accettare alla lettera l’identificazione ingegnere-artista. Fra questi vi era Gabo (cui Moholy-Nagy era particolarmente legato) per il quale se tale identità poteva esistere a livello teorico, in pratica il rapporto doveva risolversi in una sorta di “divisione dei compiti”. Dopo aver affermato che Moholy-Nagy derivò dalle sue origini culturali russe una metafora di tecnologia secondo la quale essa diventa l’equivalente della produzione come possibile ampliamento delle possibilità creative, Caroline Fawkes fa un interessante confronto Moholy-Nagy/Benjamin sul concetto di riproduzione. Mentre Banjamin si ferma alla riproducibilità, determinata in prima istanza dalla fotografia e dal cinema, Mohoiy-Nagy propone di utilizzare l’equipment riproduttivo (L. Moholy-Nagy, 1975). Ma se è vero che esiste questa contrapposizione sul significato della riproducibilità che Caroline Fawkes (di fatto) interpreta, giustamente, da un punto di vista strettamente artistico, a favore di Moholy-Nagy, c’è anche da notare che non si può prescindere dalle valenze politiche delle due ipotesi. Se da una parte è possibile parlare della “utopia rivoluzionaria” di Benjamin (che consiste, come dice Pasqualotto, nell’uso politico di un’arte desacralizzata contro lo “status” borghese-capitalistico), dall’altra è forse possibile parlare di utopia, ma non di rivoluzione. L’utopia di Moholy-Nagy è un’utopia tecnologica che, in pratica, si traduce nel tentativo di definire e d’interpretare le possibilità del mezzo (fotografia) visto come strumento di produzione all’interno della riproduzione che viene ammessa, ma superata in termini d’integrazione tecnologica. Ed è in questo che Moholy-Nagy ha superato la dichiarazione programmatica dei Costruttivisti e può essere visto quale tipico esponente del Bauhaus. Si può dunque affermare che è con Moholy-Nagy che la fotografia inizia a fare il suo ingresso nella ricerca artistica non come mezzo equivalente (Man Ray), ma come mezzo privilegiato. In sintesi: la Nuova Oggettività da una parte e Moholy-Nagy dall’altra, rappresentano due punti di arrivo e di partenza particolarmente significativi e rappresentativi della situazione che verrà a determinarsi dal dopoguerra fino ai giorni nostri. La Nuova Oggettività (fotografica) rappresenta innanzitutto una severa dichiarazione di non-ambiguità che verrà in seguito interpretata determinando nuove zone di confine tra fotografia e arte. Tra Moholy-Nagy (precedenti storici compresi) e le attuali “avanguardie” esiste un solo punto di contatto: il medium fotografico diventa specifico per la produzione o espressione artistica. Per quanto riguarda, invece, l’utilizzazione del mezzo (sia nel senso della realizzazione tecnica che in quello tradizionalmente denominato con “ispirazione”) le differenze, profonde e molteplici, concorrono a definire ciò che oggi viene, genericamente e scorrettamente, definito con “fotografia come arte” (o con altri molteplici sinonimi).

Le attuali “avanguardie”: alcune considerazioni generali.
Prima di proseguire il discorso sull’utilizzazione della fotografia nel periodo successivo alle avanguardie storiche, mi sembra necessario aprire una breve parentesi per accennare a due caratteristiche che sembrano essere alla base delle attuali “avanguardie”: 1. la definitiva caduta del momento ideologico-programmatico. “Il Dadaismo - dice Abruzzese - nella sua fase più alta aveva rifiutato di aderire a qualsiasi ideologia, ma ben presto all’interno dello stesso Dadaismo, rinasce il bisogno di un sistema di valori etici e sociali, che presiedano all’operare artistico: Bréton prevale su Picabia”. Se, dunque, Dada e soprattutto Cravan e Vaché, sono morti sotto i colpi del Surrealismo, la caduta del Surrealismo non ha immediatamente determinato un salto/rottura, ma un’evoluzione in cui, lentamente inizia a cadere il momento ideologico-programmatico nel senso della ricerca di un ruolo sociale organico, ma nello stesso tempo autonomo, per l’attività artistica e per l’artista stesso. Solo con la fine degli anni Cinquanta tale caduta giunge a compimento e ciò non vuol dire ritorno al rifiuto dell’ideologia proclamato da Dada o realizzazione dell’utopia benjaminiana, ma coincidenza tra crisi dei momento ideologico-programmatico e sviluppo economico del capitale, ovvero capacità di gestione da parte delle istituzioni (del settore artistico). La produzione artistica, figlia dell’universo della merce, non ha più bisogno del movente ideologico (indipendentemente dai tentativi di crearselo) perchè è venuta a identificarsi sempre più con la stessa ideologia del modo di produzione dominante. All’interno di tale modo di essere, l’artista ha subìto un radicale ribaltamento di ruolo: da produttore-prodotto è diventato prodotto-produttore. Ma se l’artista è diventato il prodotto, chi fa la parte del produttore? Genericamente, si potrebbe rispondere: la società. Specificatamente, si assiste all’ascesa del gallerista (preso come sinonimo di momento istituzionale) quale produttore-gestore privilegiato. 2. la diminuzione dello spazio temporale in cui s’inserisce una nuova “avanguardia”, ha reso più elastico il rapporto prodotto-produttore. La storicizzazione tende a diventare quasi automatica: il critico “osservatore-informatore” ha assunto un ruolo immediatamente (culturalmente ed economicamente) più incisivo di quello dello storico “codificatore-selezionatore”. La storicizzazione sufficiente allo scambio del prodotto si è ridotta alla comunicazione-informazione dell’uscita sul mercato del prodotto stesso. L’informazione diventa pubblicità per il prodotto nel momento stesso in cui viene generato (anche dall’informazione). Il restringimento dello spazio temporale concesso alle “avanguardie” ha determinato elasticità e scaltrezza da parte dei principali produttori: dopo un primo momento di entusiasmo per la catalogazione (il fenomeno sopravvive, ma sembra essere vicino alla fine), quasi tutti si sono resi conto che non è opportuno legarsi a questa o a quella “avanguardia”, ma che lo slittamento era più positivo sia per l’artista, che per il critico, che per il gallerista. Se è vero che l’artista svolge un lavoro specializzato, è anche vero che (con l’imprescindibile aiuto delle altre categorie coinvolte nell’operazione) è in grado di passare, con una rapidità non trascurabile, da una specialízzazione all’altra o di utilizzarne più d’una contemporaneamente. Tale facilità dì slittamento è dovuta innanzitutto all’elasticità di tutti coloro che teorizzano o gestiscono gli slittamenti stessi, ma anche a quella che sembra essere la caratteristica principale delle attuali “avanguardie”: la consimilarità (o anche l’ambiguità) che permette di evidenziare differenti referenti “teorici” che, in pratica, vengono concretizzati mediante l’utilizzazione di mezzi tecnici diversi.

La fotografia come medium artistico: alcune ipotesi iniziali.
Dopo aver accennato ad alcune caratteristiche generali delle attuali “avanguardie”, si tratta ora di prendere in considerazione quel periodo che va dalla conclusione dei Bauhaus all’utilizzazione della fotografia nell’attuale ricerca artistica. Poiché non sembra esistere un'esauriente documentazione sull’argomento, mi limiterò soltanto ad avanzare alcune ipotesi: 1. dopo le avanguardie storiche si ha un ritorno a un’ottica individuale (informale) determinata dalla caduta di ciò che Tafuri ha sintetizzato con “Il progetto e utopia”, ovvero la conclusione di una serie di esperienze (culminate nel Bauhaus) che hanno tentato di ricercare un ruolo sociale sia per l’artista che per il prodotto pur non rinunciando al momento creativo. Il ritorno a tela e pennello e l’abbandono (momentaneo) delle ricerche sull’utilizzazione della fotografia possono essere parzialmente spiegati con la rinuncia a quella vasta possibilità comunicazionale e riproduttiva che sembra essere l’attributo primo dei medium. 2. La dematerializzazione e la manipolazione dell’immagine (quale la si trova in Man Ray o in Moholy-Nagy) vengono ereditate dalle correnti fotografiche del dopoguerra. Sono infatti i fotografi che sviluppano le possibilità estreme del mezzo, mentre la “avanguardia” artistica ne riprenderà l’utilizzazione come semplice possibilità documentativa, finalizzata solo rispetto alle specializzazioni prescelte. 3. Non sembra esistere un preciso momento (data, artista o movimento) a partire dal quale sia possibile affermare che la fotografia venga utilizzata quale medium artistico specifico. È, forse, possibile intravedere nell’utilizzazione del fotografabile o del fotografato (uso di tele emulsionate o delle proiezioni nella Pop Art) uno dei tanti precedenti di quel ribaltamento avvenuto nei primi anni Sessanta e divenuto dominante nei primi Settanta. Ciò che è dato cogliere di tale ribaltamento è la semplice preferenza dell’utilizzazione diretta della fotografia da parte di un numero sempre più elevato di artisti. 4. La dilatazione dell’espressione artistica è probabilmente, una delle cause principali di tale situazione e Dada (che aveva definitivamente infranto l’equilibrio dell’opera e la sua univocità rappresentativa sembra costituirne il precedente storico di maggior rilievo. Le serate al Café Voltaire (Zurigo) o le azioni di Cravan o la Merzbau di Schwitters o Rose Sélavy (Duchamp) sono gli antecedenti dell’attuale “libertà” costitutiva dell’opera. La fotografia nella sua utilizzazione di medium-equivalente o di medium-sostitutivo, rappresenta quello strumento atto a conciliare produzione e riproduzione nell’accezione teorica di Moholy-Nagy, mentre il problema della finalizzazione della riproducibilità (Benjamin) è definitivamente scomparso e, con ogni probabilità, non è mai “artisticamente” esistito, se non parzialmente in Dada di Berlino.

Utilizzazione della fotografia nell’attuale ricerca artistica.
Mentre la riproducíbilità segue, attualmente, solo le leggi del mercato, la produttività non può essere quindi un’affermazione equivalente. Se è vero che anche la produzione artistica è in quanto merce, è anche vero che un discorso che si limiti a questa semplice constatazione, pur dando un taglio teoricamente corretto all’impostazione del problema, risulta riduttivo e privo d’interesse rispetto alle scelte politicamente operate: o si fa la rivoluzione o si cerca di spiegare la trasformazione delle tematiche ideologiche. Non resta, quindi, che cercare d’indagare quali siano le diverse utilizzazioni della fotografia nell’attuale ricerca artistica, premettendo che il metodo utilizzato: - prende le mosse dalle diverse utilizzazioni della fotografia e non dalla divisione per “avanguardie” (Conceptual Art, Body Land ecc.) - pur constatando l’utilizzazione parallela di diversi media in un singolo artista, attribuisce alla fotografia (intesa come opera più vendibile) il risultato finale di molte esperienze originariamente realizzate con il video o con il film - trascurerà un’analisi dettagliata autore per autore (che richiederebbe una trattazione autonoma), ma tenderà a stabilire confronti paralleli per gruppi di artisti che, nonostante le grosse diversità specifiche e individuali, ho ritenuto opportuno accostare rispetto all’utilizzazione del mezzo fotografico. Per necessità di chiarezza utilizzerò uno schema che dovrebbe essere interpretato con la massima elasticità possibile. L’utilizzazione della fotografia, nell’attuale ricerca artistica, può essere vista: 1. come semplice testimonianza e visualizzazione di azioni. In tal caso la fotografia è, da una parte, medium-sostitutivo (degli strumenti artistici tradizionali) e dall’altra medium-equivalente (di qualsiasi altro mezzo atto a registrare l’azione: video, film, diapositive). La fotografia (sia in copia unica che in multiplo) viene utilizzata come garanzia di riproducibilità dell’azione che, in quanto tale, è invendibile e ne diventa automaticamente la “merce” (l’opera). Le possibilità del mezzo vengono utilizzate al loro primo stadio: non si ha né dematerializzazione dell’immagine, né manipolazione interna o esterna. La realizzazione tecnica dell’immagine è, generalmente, trascurabile. L’opera sta nell’azione e la fotografia gioca un ruolo secondario. Tra gli artisti che utilizzano la fotografia come semplice testimonianza e visualizzazione di azioni: Marina Abramovich, Vito Acconci, Gúnter Brus, Chris Burden, Juergen Klauke, Hermann Nitch, Gina Pane, Arnuif Rainer (là dove non interviene sulla fotografia), Klaus Rinke, Rudolf Schwarzkogler. 2. Come visualizzazione di trasformazioni operate sulla persona fisica. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di sequenze in cui la fotografia è essenzialmente medium-sostitutivo. Le possibilità del mezzo vengono utilizzate al loro primo stadio con impercettibili variazioni tecniche. L’opera è nella trasformazione, ma la fotografia gioca un ruolo di primo piano, tanto che si potrebbe affermare che l’opera tende alla fotografia stessa. Tra gli artisti che utilizzano la fotografia come visualizzazione di trasformazioni operate sulla persona fisica: Luciano Castelli, Giorgio Ciam, Fernando De Filippi (in “Lenin”), Urs Lúthi, Katharina Sieverding. 3. Come osservazioni, intervento o immagini per un’analisi dell’ambiente Anche in questo caso si tratta generalmente di sequenze in cui la fotografia è essenzialmente medium-sostitutivo. Le possibilità del mezzo vengono utilizzate al loro primo stadio, ma l’accuratezza tecnica ha, nella più parte dei casi, un’importanza non trascurabile. Se l’opera consiste nella semplice osservazione fotografica, il problema, rispetto al ruolo dell’artista e a quello del fotografo, diventa assai complesso. Se non esistessero fotografi che lavorano a tiratura limitata o a copia unica, sarebbe possibile affermare che la differenza sta nella riproducibilità che, in ambito artistico, per esigenze di mercato viene pesantemente limitata o negata. Scartata la riproducibilità, l’unica osservazione possibile sembra risiedere nella specializzazione dell’osservazione. La specializzazione (caratteristica comune delle attuali “avanguardie”) è particolarmente accentuata in questo settore anche là dove la fotografia subisce interventi esterni o dove svolge un ruolo complementare all’interno di un’analisi “scientifica” dell’ambiente. Tra gli artisti che utilizzano la fotografia come semplice osservazione o come proposta d’intervento o come immagine per un’analisi dell’ambiente (molto spesso queste tre tendenze coesistono): Bernd & Hilla Becher, Ger Dekkers, Jan Dibbets, Hamish Fulton, Paul Armand Gette, Michael Heizer, John Hilliard, Barbara & Michael Leisgen, Richard Long, Dennis Oppenheim, Robert Smithson. 4. Come possibilità per una narrazione visiva di aspetti della vita privata o della pubblica quotidianità In tal caso si hanno le seguenti possibilità di visualizzazione dell’opera: a. la fotografia viene utilizzata come medium-sostitutivo e ne viene sfruttata sia la possibilità narrativa del singolo fotogramma (è questo il caso in cui il mezzo viene utilizzato al suo primo stadio) sia la possibilità combinatoria di un certo numero di fotogrammi finalizzati a un’unica immagine composita (e le possibilità del mezzo hanno un peso maggiore). Gilbert & George rappresentano, in modo particolarmente chiaro, tale tipo di utilizzazione della fotografia. b. nell’ambito “privato” s’inserisce anche l’utilizzazione del mezzo a fini diaristici o da album. La fotografia è medium-sostituivo, evidentemente, e viene utilizzata al suo primo stadio: le possibilità del mezzo sono irrilevanti. La visualizzazione viene realizzata per semplice accostamento di più fotogrammi finalizzati concettualmente, ma non visivamente. Christian Boltanski, Bruno Locci, Annette Messager, Anne & Patrick Poirier sono tra gli esponenti “tipici” di tale tendenza in cui il “ricordo”, spesso artificialmente costruito o spersonalizzato, è il costituente fondamentale dell’opera. 5. la fotografia viene utilizzata come mezzo “occasionalmente” sostitutivo, ma fondamentalmente equivalente al video o al film. Infatti, scopo dell’opera, realizzata in sequenza, è la visualizzazione di semplici osservazioni della pubblica quotidianità colta sia nel rapporto ambiente-abitatori (Didier Bay o alcune opere di Mac Adams) sia nel rapporto che l’ambiente ha con se stesso e con ciò che comprende (Lee Fridiander, Ed Rusha). Un caso a parte è costituito da John Baldessari: benchè la fotografia venga utilizzata in sequenza a fini fondamentalmente “narrativi”, essa svolge un ruolo sostitutivo data la “concettualità” che lega un’immagine all’altra all’interno di uno stesso lavoro. 6. Come visualizzazione complementare o aggiuntiva di una narrazione o di una ricerca che risiede in una serie di osservazioni generalmente scritte o obbligatoriamente sottintese. In questo caso si possono trovare sia sequenze che immagini isolate in cui la fotografia svolge una funzione, nella maggior parte dei casi, sostitutiva. Quando si tratta di immagini isolate, l’accuratezza tecnica non è trascurabile. Tra gli artisti: Bili Beckiey, Rudolf Bon Vie, Marcel Broodthaers, Cioni Carpi, James Collins, Roger Cutforth, Dougias Huebler, Jean Le Gac, William Wegman, Roger Welch.
Agli artisti citati nei sei punti, ne possono essere aggiunti molti altri che, dal punto di vista dell’utilizzazione del mezzo, non è stato possibile inserire nelle varie sezioni per due fondamentali ragioni: o si tratta di artisti per i quali non è stato possibile reperire un’ampia documentazione o perchè si tratta di artisti che utilizzano la fotografia a diversi livelli del discorso e che avrebbero, quindi, dovuto essere inseriti in più di una sezione rispetto alle singole opere o ai periodi della loro attività. Tra gli artisti che non ho potuto inserire nelle sei sezioni “artificialmente” create al fine di tentare di analizzare l’utilizzazione della fotografia nell’attuale ricerca artistica: Eleanor Antin, Keith Arnatt, David Askevold, Gabor Attalai, Vietor Burgin, Francesco Clemente, Robert Cumming, Jole De Freitas, Nicola De Maria, Antonio Dias, Peter Feldmann, Hreinn Fridfinnsson, Dan Graham, Nicole Gravier, Laura Grisi, Sigurdur Gudmutidsson, Haka, Rebecca Horn, Peter Hutchinson, Nancy Kitchel, Andy Lachowitz, Suzy Lake, Les Levine, Fabio Mauri, Karei Miler, Alzek Misheff, Verita Monselles, Tania Moraud, Alberto Moietti, Natalia LL, Luigi Ontani, Stanisiao Pacus, Giuseppe Penone, Marcia Resnick, Uiriche Rosenbach, Salvo, Carole Schneemann, Petr Stembera, Antonio Trotta, Ulay, Franco Vaccari, Vari Eik, Vari Schiey, Jiri Valoch, Stephen Wiliats, Michele Zaza.

In conclusione: osservare che la fotografia nasce e si sviluppa nel momento in cui la richiesta d’immagini “s’impone a livello industriale” e poi in stretto, significativo rapporto con le grandi Esposizioni Universali, ai fini dell’utilizzazione del mezzo, equivale a metterne in evidenza la proprietà prima: la possibilità riproduttiva. Possibilità riproduttiva, possibilità produttiva, limitazione o negazione della prima, modalità applicative della seconda sembrano essere i poli fondamentali attorno ai quali ruota la fotografia come mezzo tecnico nelle sue utilizzazioni in campo artistico. Fino a Lazlo Moholy-Nagy, preso come simbolo dell’indagine e della sperimentazione sulle possibilità produttive inerenti il mezzo, non sembra possibile parlare di una cosciente utilizzazione a fini specificatamente artistici, ma soltanto di una serie di apporti che prendendo le mosse dal “filone dello sperimentalismo tecnico” (Muybridge, Marey, Eakins) e attraverso il tentativo “sociale” di Sander, la progressiva riduzione del campo di relazioni (Atget), il fallito tentativo di rivendicare autonomia artistica per il mezzo all’interno dei princìpi generali di una “avanguardia” (Bragaglia), la manipolazione a fini semplicemente formali o “politici” attraverso il “fotomontaggio” (Dada di Berlino in particolare), l’utilizzazione “equivalente” (Man Ray) giungono infine a quella “verifica generale” delle precedenti ipotesi (Bauhaus) che permette anche alla fotografia di veder chiaro nelle proprie possibilità e destini sia in campo specificatamente artistico (Moholy-Nagy) sia nella sua utilizzazione in rapporto alla produzione industriale. Dopo l’intervallo che va dalla conclusione dei Bauhaus alle attuali “avanguardie”, la fotografia ritorna a essere utilizzata secondo le modalità che mi è sembrato di poter riassumere nei sei punti trattati appena sopra. Questo dunque sembra essere l’itinerario del rapporto arte-fotografia, individuato non nei termini di “fotografia come arte”, ma nella sempre più specifica utilizzazione del mezzo. Ho cercato infine di vedere come ciò avvenga attualmente e i sei punti in tal senso creati hanno valenza anche provocatoria, poiché vogliono sollecitare una reazione che possa contribuire a un maggior approfondimento.

Ilaria Bignamini

Dal  catalogo della mostra ideata e organizzata da Giancarlo Bocchi
per il Comune di Parma, 1978.

   archivio artisti→